Benedetto XVI? Un intellettuale postmoderno
un colloquio con Vittorio Messori
- di Davide Perillo |
P
arola di un esperto che lo conosce bene e che conosceva bene anche Wojtyla. E che qui azzarda qualche parallelo. Esempio: «Per Giovanni Paolo II la fede era un'evidenza, non aveva bisogno di ragionamenti. Per Ratzinger è la scoperta di ogni giorno, bisogna sempre darne le ragioni». Bilancio del primo anno di un pontificato partito piano, ma che sta rivoluzionando la Chiesa dal di dentro. Più di quanto abbia fatto quello precedente«Guardi, il modo di procedere di Ratzinger l’ho capito ancora meglio l’estate scorsa, quando ho passato un po’ di giorni in una Kurhaus della Svizzera tedesca». Scusi, che c’entra il Papa con le terme? «Per una settimana i medici mi hanno fatto solo visite: almeno quattro o cinque, senza dirmi nulla. Nessuna terapia. La cura è iniziata dopo. Prima serviva la diagnosi». Eccolo lì, il «metodo Ratzinger» visto da uno che lo conosce bene. È Vittorio Messori, scrittore e giornalista che sotto l’etichetta (vera) di «saggista cattolico più letto del mondo» ha la sostanza di giornate intere spese a discutere con Karol Wojtyla e lo stesso Joseph Ratzinger, cavandone bestseller mondiali (i libri-intervista Varcare le soglie della speranza e Rapporto sulla fede hanno venduto milioni di copie) ma anche, e soprattutto, una conoscenza personale di due Papi che pochi possono vantare. La persona giusta per tirare un bilancio, quindi. A un anno dalla morte di Giovanni Paolo II, che il 2 aprile 2005 mise fine al terzo più lungo pontificato della storia (26 anni e mezzo), e dall’elezione di Benedetto XVI, che rispetto al Pontefice polacco è diverso in tutto. E a pochi giorni dal Concistoro che ha creato 15 neocardinali - alcuni dei quali a sorpresa -, dando un’altra accelerazione all’abbrivio preso da Papa Ratzinger negli ultimi tempi. Da fine gennaio sono arrivati, nell’ordine: la prima enciclica (Deus caritas est); la conferma di Camillo Ruini a capo dei vescovi italiani; una sforbiciata ai «ministeri vaticani»; l’annuncio di una riforma corposa della Curia.
Niente male, per un Pontefice che nei mesi successivi all’elezione aveva spiazzato tutti tenendo il ritmo basso. Molti osservatori avevano previsto restaurazioni massicce e radicali, adatte al Panzerkardinal che, secondo la vulgata, aveva regnato per 24 anni sull’ex Sant’Uffizio. Benedetto XVI ha fatto capire in fretta che della macchina da guerra non ha nulla. Tutt’al più assomiglia a un aratro. Passo lento, ma costante. Smuove la terra, non la spiana. E lo fa per seminare. «Devo essere sincero: qualche volta nei mesi scorsi mi sono sorpreso anch’io a pensare "Santità, si dia una mossa"», confessa Messori: «Mi sembrava che facesse poco. In realtà non è così. Benedetto XVI è un uomo che non ama balconi e bagni di folla. Però fa quello che Wojtyla, secondo alcuni, trascurava: studia i dossier. Una delle accuse che venivano fatte a Giovanni Paolo II era di occuparsi molto del mondo, ma poco dell’istituzione-Chiesa. Ratzinger è il contrario. Scuola tedesca, appunto. Si prende tempo per la diagnosi prima di stabilire le cure».
Poi, però, decide. E lo fa in proprio. In Vaticano ne parlano come di uno che ascolta tutti, ma non delega le scelte a nessuno. È così? «Questa è un’altra differenza rispetto a Giovanni Paolo II. L’80 per cento delle cose che leggeva o pubblicava Wojtyla erano opera del suo staff. Lui supervisionava. Giovanni Paolo II, in qualche modo, voleva dire la sua su tutto. Per questo era costretto a non fare da solo. Ratzinger, invece, quello che dice se lo scrive lui, al suo tavolino. Nella Deus caritas est si capisce benissimo: ci si legge sotto la sintassi tedesca e ci si ritrova il suo stile. Ma la stessa cosa vale per le occasioni pubbliche. Wojtyla ospitava sempre qualcuno: messe, pranzi, riunioni a raffica. Ratzinger no: ha ridotto del 70% le udienze private e tagliato i viaggi a tre o quattro l’anno, non di più». Vuol dire che è un Papa meno accessibile? «Solo in un certo senso. Provi a riguardarsi le foto e i filmati di Wojtyla in mezzo alla folla. Lo vede stringere migliaia di mani, ma sempre di corsa, guardando poco in faccia gli interlocutori. Ratzinger, invece, guarda negli occhi, sempre. Si ferma a parlare, uno per uno. Vuol sapere chi ha davanti. Questione di carattere, chiaro. Ma non solo. Wojtyla era un uomo di cristianità: voleva che il Vangelo fosse annunciato ai popoli. Per lui la folla era l’habitat. Ratzinger è un uomo di interiorità, un intellettuale postmoderno. Uno che, se potesse, parlerebbe sempre e solo a tu per tu».
Eppure anche lui le folle le attira, a dispetto di un’altra previsione sballata d’inizio pontificato: a Colonia, in agosto, c’era un milione di giovani, agli Angelus piazza San Pietro è strapiena… «Vero. Joaquin Navarro-Valls mi diceva proprio ieri che le presenze alle udienze sono tra il raddoppiate e il triplicate». E come se lo spiega? «Con due motivi di fondo. Uno: l’effetto-traino del predecessore. Wojtyla ha riportato Cristo al centro del dibattito mondiale. Nel ’78, alla sua elezione, la crisi della Chiesa era all’acme: a San Pietro c’erano solo turisti, altro che folle. L’anno scorso, al suo funerale, si è visto che cosa è successo». E l’altra ragione? «La spiegava bene il titolo di un giornale tedesco nei giorni di Colonia: "Ratzinger, l’accademico che si capisce". Benedetto XVI è un professore, ma ha un grande rispetto per l’interlocutore. Parla con densità e serietà assolute, ma sforzandosi di farsi capire. Non vuole vincere, ma convincere. Per questo la folla ne è attratta».
Burocrazia barocca. Apriamo il dossier-Chiesa. Anche lì le prime mosse sono state intonate allo stesso Leitmotiv: snellire e semplificare. Impressione corretta? «Sì. Una volta gli ho chiesto: eminenza, immagino che lei, da bavarese, sarebbe contento se il centro della Chiesa non fosse a Roma, ma in Germania. Lui mi guardò un po’ sorpreso, poi mi disse: "Per carità, avremmo una Chiesa troppo organizzata. E l’organizzazione soffoca lo Spirito". La verità è che Ratzinger non ama il barocchismo curiale e l’ipertrofia burocratica. Pensa che la Chiesa vada snellita». In che modo? Vuol dire che si arriverà a una riforma drastica della Curia? «Per riformare la Curia ci vuole un motu proprio, un documento ufficiale del Papa. Serve tempo. Lo farà, per amore della Chiesa. Ma credo che umanamente gli costerà fatica». Però sarà l’occasione per pescare facce nuove, magari degli outsider. In parte l’ha già fatto, nominando l’americano William Levada come suo successore alla Dottrina della fede... «Ma in fondo lui stesso è un outsider. Può sembrare un paradosso, perché era già a Roma da un quarto di secolo e come custode della fede, mica da monsignore qualunque. Però nella Curia era rimasto un corpo estraneo. Si occupava del suo ruolo e basta. Faceva documenti dottrinali. Studiava. Scriveva. Ogni settimana vedeva il Papa. Incontrava qualche altro cardinale. Ma di rapporti veri e propri con la macchina non ne aveva. Anche per questo ha dovuto studiare bene la situazione. È probabile che punti su facce nuove. Ma senza crearsi intorno reti a maglie troppo fitte».
Cambio della guardia. Niente clan, quindi. E niente invasioni di tedeschi in vista: anche il rapporto professionale con don Georg Gaenswein, segretario personale, è lontano da quello semicameratesco tra Giovanni Paolo II e Stanislaw Dziwisz, vero deus ex machina della gestione wojtyliana. Ma di sicuro i cambi della guardia arriveranno in fretta. Anche in alto. «Chi conta in Vaticano sa che che non c’è sintonia tra il nuovo Papa e il segretario di Stato, Angelo Sodano, ereditato da Wojtyla e che peraltro nel 2007 compirà 80 anni. Ci sono sensibilità diverse, ci sono state anche contrapposizioni: quando Ratzinger era al Sant’Uffizio era intransigente, conoscendo bene la situazione tedesca, contro la presenza di consiglieri "cattolici" nei consultori di Germania dove si praticava l’aborto. Sodano, invece, era possibilista. Ma anche in altre occasioni le prospettive divergevano, tra i due cardinali. Per ora, Sodano è stato riconfermato. Ma solo pro tempore».
Chi non è stato confermato, invece, è monsignor Michael Fitzgerald, responsabile del dialogo interreligioso. Segno che sull’argomento il Papa vuol cambiare impostazione? «La verità è che Ratzinger è sempre stato un pensatore eurocentrico. È un intellettuale della Mitteleuropa: un teologo occidentale che, anche nei suoi messaggi, in qualche modo ha come interlocutore sempre l’uomo occidentale. Non ha illusioni terzomondiste. Sa che malgrado tutto il futuro della Chiesa si gioca qui. Per lui conta di più tener duro in una parrocchia delle Marche o ridare vita alla Chiesa in Bretagna che conquistare fedeli in una diocesi africana».
Forse è anche per questo che sta cercando di riportare nella Chiesa i lefebvriani (scomunicati da Giovanni Paolo II) e lancia segnali sempre più forti agli ortodossi. L’ecumenismo, per lui, parte dall’unità della Chiesa... «Chiaro. E su questa frontiera europea, l’ortodossia ha un ruolo molto importante. Certi vescovi hanno mitizzato per anni il dialogo con le chiese protestanti storiche: be’, quello è un dialogo con dei fantasmi. Luterani, calvinisti e anglicani ormai sono senza popolo: hanno professori, ma non fedeli. Il solo protestantesimo vivo è quello impazzito: Avventisti, evangelici… O i Testimoni di Geova, che da noi sono la terza confessione dopo cattolici e musulmani: eppure la Chiesa non se n’è mai preoccupata. Il dialogo con queste realtà è ecumenicamente scorretto. Ma non escludo che Ratzinger, da buon realista, lo apra». E l’islam? «Anche lì sta facendo la diagnosi, prima della terapia. Di sicuro è consapevole che i musulmani non sono un monolite: quello può pensarlo solo Bush, che si illude di combatterli con le bombe. E infatti, se continua così, prima o poi si arriverà a uno scontro tra Usa e Vaticano». Però la radicalizzazione dell’islamismo c’è, specialmente in certe zone di frontiera: si vedono sempre più spesso martiri e chiese bruciate. «Certo, oggi il dialogo diventa più complicato. Ma la vera difficoltà è stabilire con chi si possa dialogare. Trovare gli interlocutori adeguati. Il Papa lo sa. E li sta cercando».
Preti o showman? Servirà altro tempo, insomma. Ma intanto l’aratro va avanti. E, a sentire Messori, è facile che tra un po’ vada a smuovere pure un altro orto, altrettanto delicato: «La liturgia. Per lui è ancora un grande cruccio. Lo considera uno dei maggiori tradimenti del Concilio. A volte si pensa alla messa come a uno show, con il prete che fa da anchorman e magari chiude la funzione dicendo "arrivederci a tutti e buona serata": succede in molte chiese. Per Benedetto XVI, invece, la forza della liturgia sta tutta nella ripetizione, nel dire le stesse cose tutti i giorni nello stesso modo, alternando gesti e silenzi. Il sacerdote è solo uno strumento al servizio del popolo. Persino il Papa lo è. E infatti le celebrazioni papali sono diventate molto più sobrie. Mi dicono che i registi Rai a volte non sanno come cavarsela». In che senso? «Ratzinger ha reintrodotto l’adorazione eucaristica durante la messa: silenzio e preghiera davanti al Sacramento. Be’, è la cosa più antitelevisiva che ci sia: che fai in quei momenti, inquadri l’ostia?».
Però le cerimonie calano anche di numero. In San Pietro, per dire, non ci sono più beatificazioni: il Papa celebra solo le canonizzazioni. «Il punto è proprio questo: Ratzinger vuole rendere la Chiesa meno papocentrica. Il carisma personale di Wojtyla, in qualche modo, ha fatto sì che la Chiesa intera si identificasse in un uomo. Insomma, ha avuto risvolti da culto della personalità, per quanto non voluti. Ratzinger cerca di essere il meno invadente possibile. Non vuole che la Chiesa diventi tout court l’uomo che la guida. Anche se forse, a conti fatti, la differenza più importante tra Wojtyla e Ratzinger è un’altra, e riguarda proprio l’idea della fede». In che senso? «Giovanni Paolo II paradossalmente non aveva bisogno di credere. Era un temperamento mistico, e al mistico non servono troppi ragionamenti. Vede. Tocca. Constata. Per lui, la fede è un’evidenza. Non lascia spazio a dubbi o domande. Benedetto XVI, invece, anche in questo è un vero intellettuale postmoderno. In lui la fede è una riscoperta di ogni giorno, qualcosa di cui occorre sempre spiegare le ragioni. È uno che sulla fede si interroga e conosce anche la possibilità del dubbio. Non che lui stesso dubiti, chiaro. Ma si rende conto che gran parte degli uomini occidentali lo fanno. E vuole rispondere anche a loro».